Ecco la domanda da centomilioni di dollari che spesso mi sento rivolgere durante i convegni o le serate cui mi capita di partecipare.
Una domanda, capirete, che non può avere una risposta sensata, tante sono le condizioni che portano a vivere una condizione di malessere -condizioni che, per altro, spesso valgono per quella persona e basta, poiché altre, in una situazione similare, non mostrano alcuna difficoltà o riescono a superarla senza inciampi.
Ciò detto, nonostante l'impossibilità di rispondere, la frequenza con cui mi viene posto il quesito mi ha spinto, nel tempo, a cercare una soluzione -non fosse altro che per superare l'imbarazzo di non saper che dire in quei frangenti, appellandomi al solito "Sa, è complesso..." che lasciva sempre tutti delusi. Così, ho cercato e trovato una risposta che, intendiamoci, non è "La Risposta", ma semplicemente una possibile macrocategoria che, dal mio punto di vista, contiene molte delle situazioni che poi inducono al malessere.
Dunque, se vi capita di incrociarmi in una di queste occasioni e vi assale il desiderio di farmi la fatal domanda, sappiate che la risposta è questa: "Ciò che fa star male una persona è fallire.". I modi in cui poi questa possibilità si declina sono diversi: fa star male il fatto di aver fallito, ma anche la paura di fallire, oppure la consapevolezza che il mio fallimento farà star male altre persone, etc.
Ora, per stare nello specifico di questo blog, la cosa non è diversa se, da una generica persona, passiamo a quelle persone che vestono i panni dello studente, in ogni ordine e grado del processo di scolarizzazione e di formazione in genere. Anzi, se è possibile, in tutti questi casi, il disagio del fallimento è ancora più potente, perché si misura, con più forza che altrove, con il giudizio dell'Altro.
Infatti, ogni cosa inerente al mondo della formazione, è necessariamente sottoposta a una verifica (tranne gli insegnanti, ma questo è un altro discorso cui si dovrà, prima o poi, porre rimedio) il cui esito può essere positivo (successo) o negativo (fallimento). Solo che, rispetto a molte altre cose della vita, tale esito dipende sempre dall'arbitrio altrui, nel senso che è sempre l'Altro che decide il valore della mia performance.
L'unica cosa che io studente posso fare per influenzare questo giudizio, è prepararmi al meglio. Ma qui, per tanti studenti, casca il famoso asino.
Il problema, infatti, è che, per quanto in tutti questi anni di intervento educativo non abbia mai incontrato un solo studente che avesse piacere a fallire, ne ho incontrati invece tantissimi che ritenevano troppo elevato il prezzo da pagare per avere successo, ergo: andare bene a scuola.
Il fantasma del fallimento è un testimone onnipresente che, comunque sia, esercita un qualche tipo di pressione su chiunque debba essere verificato, anche quando questi è preparato al meglio. Tuttavia, avrà un peso tanto minore in chi, pur temendolo, l'ha visto apparire poche volte o nessuna. Per coloro che, invece, con il fallimento hanno una certa confidenza, questo fantasma grava come un macigno, tanto da portare, spesso, alla paralisi, a un ritiro dalla competizione ancor prima di iniziare.
Si tratta di soggetti spesso perennemente frustrati o che, peggio, in mancanza d'altro, finiscono per fare del loro fallimento un motivo di orgoglio e di protagonismo, instaurando una fatale escalation al ribasso, che può avere gravi incidenze anche nella vita in genere.
Per questo i primi anni di scuola sono tanto importanti, perché è lì che impariamo a tenere a bada questo fantasma nell'unico modo possibile: rendere al meglio. Ciò non significa che non si possa riparare negli anni di scuola a venire. Il mio lavoro con tanti studenti che conoscevano bene il fallimento, testimonia che, anche in corso d'opera, si può intervenire depotenziando ogni spettro e fornendo gli strumenti per ritrovare un sano rapporto con la performance scolastica.
Ma, sia che la si prenda preventivamente e saggiamente in anticipo, sia che si corra successivamente ai ripari, ciò che conta è non lasciare queste persone allo sbaraglio di se stesse, alle prese con un mondo che non conoscono e che necessità di adeguate tecniche e modalità per essere affrontato al meglio, in poche parole: fornire loro un metodo di studio.
Questa è, a mio avviso, la più grave responsabilità della scuola: non prevedere almeno un'ora la settimana da dedicare a come imparare ad imparare, una materia fondamentale, più delle altre, poiché propedeutica ad esse.
Pensare, invece, di poter giudicare, magari decretando il fallimento, senza aver fornito gli strumenti adeguati per poter essere giudicati cercando di evitare il fallimento, è un approccio che non può che produrre una scuola, questa scuola, dove solo chi (per capacità, stimoli, supporti esterni, fortuna) continua a salvarsi, mentre gli altri soccombono.
Infatti, ogni cosa inerente al mondo della formazione, è necessariamente sottoposta a una verifica (tranne gli insegnanti, ma questo è un altro discorso cui si dovrà, prima o poi, porre rimedio) il cui esito può essere positivo (successo) o negativo (fallimento). Solo che, rispetto a molte altre cose della vita, tale esito dipende sempre dall'arbitrio altrui, nel senso che è sempre l'Altro che decide il valore della mia performance.
L'unica cosa che io studente posso fare per influenzare questo giudizio, è prepararmi al meglio. Ma qui, per tanti studenti, casca il famoso asino.
Il problema, infatti, è che, per quanto in tutti questi anni di intervento educativo non abbia mai incontrato un solo studente che avesse piacere a fallire, ne ho incontrati invece tantissimi che ritenevano troppo elevato il prezzo da pagare per avere successo, ergo: andare bene a scuola.
Il fantasma del fallimento è un testimone onnipresente che, comunque sia, esercita un qualche tipo di pressione su chiunque debba essere verificato, anche quando questi è preparato al meglio. Tuttavia, avrà un peso tanto minore in chi, pur temendolo, l'ha visto apparire poche volte o nessuna. Per coloro che, invece, con il fallimento hanno una certa confidenza, questo fantasma grava come un macigno, tanto da portare, spesso, alla paralisi, a un ritiro dalla competizione ancor prima di iniziare.
Si tratta di soggetti spesso perennemente frustrati o che, peggio, in mancanza d'altro, finiscono per fare del loro fallimento un motivo di orgoglio e di protagonismo, instaurando una fatale escalation al ribasso, che può avere gravi incidenze anche nella vita in genere.
Per questo i primi anni di scuola sono tanto importanti, perché è lì che impariamo a tenere a bada questo fantasma nell'unico modo possibile: rendere al meglio. Ciò non significa che non si possa riparare negli anni di scuola a venire. Il mio lavoro con tanti studenti che conoscevano bene il fallimento, testimonia che, anche in corso d'opera, si può intervenire depotenziando ogni spettro e fornendo gli strumenti per ritrovare un sano rapporto con la performance scolastica.
Ma, sia che la si prenda preventivamente e saggiamente in anticipo, sia che si corra successivamente ai ripari, ciò che conta è non lasciare queste persone allo sbaraglio di se stesse, alle prese con un mondo che non conoscono e che necessità di adeguate tecniche e modalità per essere affrontato al meglio, in poche parole: fornire loro un metodo di studio.
Questa è, a mio avviso, la più grave responsabilità della scuola: non prevedere almeno un'ora la settimana da dedicare a come imparare ad imparare, una materia fondamentale, più delle altre, poiché propedeutica ad esse.
Pensare, invece, di poter giudicare, magari decretando il fallimento, senza aver fornito gli strumenti adeguati per poter essere giudicati cercando di evitare il fallimento, è un approccio che non può che produrre una scuola, questa scuola, dove solo chi (per capacità, stimoli, supporti esterni, fortuna) continua a salvarsi, mentre gli altri soccombono.
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