La logica per cui il verbo “studiare” continui ad essere, nel linguaggio e nelle pratiche comuni, in qualche modo catalogato tra i contrari di “divertirtisi”, è falsa e nefasta, e continuerà a mietere non solo ondate di cattivi studenti, ma soprattutto di uomini e donne disarcionati da un sano rapporto con la conoscenza, se non provvederemo, in qualche modo, a eliminarla.
Non c’è, infatti, bisogno di nessun genio della lampada, né di un trattato di qualsivoglia teoria, per capire che qualsiasi cosa presentata come pedante, noiosa, faticosa, non attira certo le simpatie e il desiderio di frequentarla.
Più che mai oggi che, come ci ricorda Romano Madera, “fatica” e “sacrificio” sono diventate parole tabù, perdendo il peso educativo che avevano nella vita sociale e trasformandosi da “parole culto”, su cui si sono fondate tutte le civiltà umane segnate dalla scarsità dei beni, a “parole minaccia” per la civiltà dello sperpero e dei consumi in cui viviamo.
Oggi, ciò che la concezione contemporanea inserisce nella categoria delle cose buone e giuste, non prevede né la fatica, né il sacrificio e, tanto meno, la noia; anzi, prescrive il loro esatto contrario: la facilità, meglio declinata come: semplificazione, immediatezza; e l'abbondanza, a sua volta declinata come: consumo, opulenza, spreco.
Tuttavia, non c’è anatema più abusato di quello che genitori e -ahinoi- anche insegnati, lanciano allo studente di turno, dando corpo a macumbe tipo: “Ah, vedrai quando andrai a scuola,” oppure, più esplicito: “Ah, hai finito di divertirti, il prossimo anno inizia la scuola,” o ancora: “Non credere di poter giocare per tutta la vita, a settembre inizia la scuola.”.
Con questo carico di gioiose aspettative, la gran parte dei bambini entrano nella scuola dell’obbligo e si rendono conto ben presto che il refrain di anno in anno non cambia, cosicché, se per caso a qualcuno venisse la malaugurata idea di pensare: “Sai che, però, questa scuola non è mica cosi male”, ecco pronta la nuova preveggente maledizione: “Quest’anno è stata una passeggiata, ma non crederai che anche l’anno prossimo sarà cosi?”.
Il vero dramma, però, è che la macumba, il più delle volte, si concreta e lo studente sperimenta, sulla propria pelle, che la scuola (e, per associazione, studiare e, per associazione, conoscere -sic) è davvero il contrario del divertimento, della piacevolezza, del godimento.
Un tempo, quando parole come -appunto- “fatica” e “sacrificio” erano tanto interconnesse alla vita, da percepire come naturali e non necessariamente negative molte delle conseguenze che ne discendevano, anche la scuola poteva permettersi di reggere un impianto che, su quelle parole, forgiava i suoi adepti, e gli insegnanti adottare metodi che, da millenni, su quelle parole, avevano impartito i loro metodi di studio.
Oggi questi metodi, per i motivi che qui ho cercato pur brevemente di descrivere, non funzionano più e, laddove funzionano, si rivelano inutilmente dispendiosi a fronte delle scoperte che nel frattempo si sono avvicendate e delle tecnologie di supporto che abbiamo ideato.
Ciò non significa che non si debba, in qualche modo, faticare, o che si possano eliminare disciplina e sacrificio dalle pratiche di apprendimento, ma che la loro rappresentazione, inutilmente terrorista, andrebbe bandita dal linguaggio intimidatorio con cui stupidamente si spera di dare ai nostri ragazzi un qualche tipo di stimolo ma, soprattutto, contrastata adottando fattivamente didattiche davvero innovative, che si sposino con le ricerche e le conoscenze che oggi abbiamo sul funzionamento del cervello e che, uno su tutti, ci dicono che apprendere può e deve essere divertente e coinvolgente.
Non ho mai conosciuto nessun bambino o ragazzo che, pur trascinato in un’attività divertente, sentisse la fatica o rifiutasse il sacrificio e non c’è bisogno di alcuna ricerca sul campo né di qualsivoglia scienza dell’apprendimento per ricordarci che le materie che abbiamo amato di più e che, a volte, sono anche diventate gli strumenti del nostro lavoro da adulti, non sono quelle dove abbiamo fatto meno fatica, ma quelle in cui abbiamo avuto la fortuna di incappare in un docente capace e coinvolgente.
Se un tempo queste abilità erano più o meno casuali, dettate dalla buona sorte, mentre la faceva da padrone il millenario ruolo della severità, dell’autorità, dello stare ore e ore chini sui libri finché quelle parole, spinta dopo spinta, non entravano nel cervello; oggi sappiamo che può non essere così, anzi sappiamo che deve "non essere così", perché così è inutilmente faticoso e dispendioso e ci sono, invece, modalità più divertenti per ottenere migliori risultati.
Chi forma i nostri docenti, per fare due soli esempi, all’importanza e all’uso delle tecniche della teatralità e dell’empatia, quali fondamentali strumenti per favorire l’apprendimento?
Il motto che condivido con le persone che frequentano i miei corsi è che, quando apprendere diventa facile, studiare diventa divertente. E’ importante però che, tra gli insegnanti come tra gli studenti, queste conoscenze siano diffuse e che si superino le resistenze e le diffidenze che ogni cambiamento impone.
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